Ernest Shackleton (seconda parte)

Avevamo visto Dio nel suo splendore, sentito il testo che la Natura scrive e disegna. Avevamo raggiunto l’anima nuda dell’uomo. (E.H. Shackleton)

Come promesso ecco la seconda parte… ma prima un piccolo aggiornamento, alle 11 di stamattina è arrivata la JCR salutata con tanta gioia da noi tutti e cartelloni di saluto! Sotto le foto fatte dopo che la JCR ci è passata vicina salutandoci, infatti si vede in lontananza.

Alle 13 abbiamo levato gli ormeggi e siamo in viaggio, con mare non proprio calmo, ma il peggio lo dovremmo incontrare tra un paio di giorni, per cui se non ci leggete saprete il perché!!!

Ed ora la storia di Shakleton continua…

…Nel frattempo i venti spingevano la banchisa verso nord-ovest: il pack superò sia l’isola di Paulet che quella di Joinville, senza che gli uomini avessero la possibilità di raggiungerle in slitta a causa del ghiaccio troppo sottile. Shackleton dovette quindi cambiare obiettivo: la speranza ora si chiamava isola di Elephant o quella di Clarence, viceversa si sarebbe dovuto puntare verso la Georgia del Sud e le possibilità di successo sarebbero state prossime allo zero. Nei giorni successivi il pack su cui galleggiavano iniziò a sciogliersi, non ci fu altra alternativa che salire a bordo delle scialuppe e navigare verso l’isola Elephant evitando gli iceberg, le balene e le orche. Partirono l’8 aprile 1916 e vi giunsero il 15 dopo una traversata molto impegnativa che provò fortemente uomini e scialuppe. L’Elephant è uno sperone di roccia disabitato e completamente ricoperto dai ghiacci, impossibile dirsi salvi, in quanto l’isola è fuori anche dalle rotte dei balenieri che incrociavano in quel mare. Shackleton decise quindi di compiere un’impresa disperata: a bordo della scialuppa in migliori condizioni, la James Caird, decise di partire con altri 5 uomini per cercare di raggiungere l’arcipelago della Georgia del Sud, distante 700 miglia marine (circa 1.300 chilometri). Avevano lasciato quello stesso arcipelago il 5 gennaio 1915 e da allora non si avevano più notizie in patria dell’Endurance, dove peraltro la spedizione era stata “dimenticata” a causa delle sorti della Grande Guerra.

Shackleton lasciò il comando degli uomini rimasti sull’isola Elephant al suo secondo, l’esperto e popolare Frank Wild, che nei difficili mesi sul pack era diventato sempre più un trascinatore per tutto l’equipaggio. Wild utilizzò le due scialuppe rimanenti come ripari, nello stesso modo utilizzato secoli prima dai Vichinghi in Groenlandia, ovvero rovesciandole allo scopo di creare un tetto poi rinforzato da tutto quel poco di equipaggiamento che avevano ancora. La loro resistenza fu eroica, ma altrettanto lo fu il pericoloso viaggio intrapreso da Shackleton e i suoi cinque compagni. Partiti il 24 aprile, a bordo della Caird, sfidarono i cosiddetti “cinquanta urlanti”, ovvero i famigerati venti gelidi che sferzano il canale di Drake, oltre il 50° grado di latitudine sud. Un viaggio che mise a dura prova l’equipaggio e il suo comandante. I sei riuscirono ad attraccare nell’arcipelago della Georgia del Sud dopo quindici giorni di navigazione, ma non erano ancora salvi. Attraccarono, infatti, nella parte meridionale dell’isola principale, una zona disabitata nei pressi della baia di re Haakon, un punto diametralmente opposto alla civiltà e quindi alla salvezza. Non potendo circumnavigare l’isola a causa dei forti venti non restava altro che raggiungere la stazione baleniera di Stromness (nel nord dell’isola) via terra, ma si doveva superare la catena Allardyce, un sistema di monti che supera i 2.000 metri e su cui si stagliano il monte Paget (2.934 m.) e il ghiacciaio Fortuna.

Con la scarsissima attrezzatura e le poche provviste ancora a disposizione, Shackleton in compagnia di 2 uomini compirono un’altra impresa: in sole 36 ore riuscirono ad attraversare 48 chilometri di creste e ghiacciai – mai esplorati fino a quel momento – arrivando a Stromness il 20 maggio. Da lì Shackleton organizzò subito il recupero degli altri tre uomini lasciati sulla parte meridionale dell’isola ma, specialmente, iniziò instancabilmente i preparativi per il soccorso di quanti erano rimasti sull’isola Elephant. Si andava ormai verso l’inverno antartico e le condizioni del mare e della temperatura peggioravano sempre di più con il passare dei giorni, finché – al quarto tentativo – il rimorchiatore cileno Yelcho, comandato da Luis Pardo, riuscì a trarre in salvo gli ultimi superstiti capitanati da Wild, che erano riusciti a sopravvivere nutrendosi di alghe, foche e pinguini. Era il 30 agosto 1916, tutti e 28 gli uomini salpati dall’Inghilterra due anni prima poterono quindi ritornare sani e salvi a casa.
Il 5 gennaio 1922 Shackleton, molto provato dalle sue avventure estreme, muore a seguito di un forte attacco cardiaco. La moglie Emily lo fa seppellire nel cimitero dei pescatori di Grytviken.

Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton”. Raymond Priestley

Per oltre 40 anni nessuno riuscirà a compiere l’impresa progettata da Shackleton. Gran parte del materiale scientifico raccolto durante la spedizione è stato sacrificato al posto dei viveri, delle slitte e delle scialuppe. Shackleton fece però conservare a Hurley, il fotografo, molte pellicole e chiese ad ognuno dei membri dell’equipaggio di tenere il proprio diario aggiornato come prova dell’impresa. Questi diari non sono stati ancora tutti pubblicati.

Per i miei amici fotografi: Se oggi possiamo vedere le eccezionali immagini e il film documentario “South” (1919) sulla drammatica spedizione Endurance, lo dobbiamo anche al grande fotografo australiano Frank Hurley le foto in bianco e nero sono le sue.

7 pensieri riguardo “Ernest Shackleton (seconda parte)

  1. A proposito…come sapete come sta il malato…trasferito con lungo viaggio all’ospedale….dovete ringraziarlo per avervi dato l’opportunità di scendere nell’isola… vedere ed inviare quelle meravigliose immagini….baci

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